“Non me l’aspettavo da lui questa musica, tu?”
“No, neanch’io”.
Stiamo parlando del DJ.
A dire il vero, non sapevo proprio cosa aspettarmi in generale.
Devo scrivere un diario di bordo. Leggo Sarah Manguso: Andanza. Fine di un diario. Dice: Scrivere un diario significa fare una serie di scelte su cosa omettere, cosa dimenticare.
Intanto io ho dimenticato le gocce per dormire. Per non lasciarmi sopraffare dalla natura, ho deciso di lasciarmi sopraffare dall’ansia, come sempre.
Sono affezionata ai miei rituali per scongiurare il romanticismo.
“Ti vedo preoccupata” mi ha detto ieri Riccardo Blumer mentre prendevo appunti sulle ultime pagine del libro, perché tra le dimenticanze c’era pure il quaderno dove scrivere.
La preoccupazione è cominciata da giorni. Quando ci hanno inviato il kit da portare per il festival, non avevo nulla. Scarpe da montagna, giacca contro la pioggia, torcia, tappetino, guanti da lavoro. Mi sono fatta prestare le cose. Sono andata dal ferramenta per comprare torcia e guanti: “Ma di che tipo?” Cominciavano le domande a cui non sapevo rispondere. Spero continueranno.
Ad esempio: “Come sarà farsi la doccia dentro al vagone di un treno in mezzo al bosco?”
È stato bello.
Ieri sera, mentre il DJ metteva la musica, annotavo le scritte che vedevo intorno a me: Make love/not walles. Mixed waste. Agonia. Top class shoe. Poi anche: Chi deve pagare la TARI quest’anno? L’ho sbirciato sullo schermo dell’iPhone di due ragazzi. Ecco un’altra domanda a cui non so rispondere.
Di fronte a noi calava la notte sulle rocce. La parata scura dei monti. La tenebra che ripristina ciò che la luce non può riparare, come dice Brodskij. Ma non si sceglie mai il tempismo dei propri assilli.
Accanto a me c’era qualcuno che mandava un vocale. Si è ritirato in uno spazio solo suo, in mezzo alla gente, ha avvicinato la bocca al microfono del telefono e ha detto: “Mi dispiace un sacco di non averti portato”.
Io non so chi avrei portato, ma se lo sapessi, spiacerebbe un sacco anche a me.











Visto che non guido, sarei tenuta a fare il navigatore quando ci spostiamo in
macchina, ma non ho senso dell’orientamento.
Le bussole per i miei tragitti sono le streghe nei giardini delle case e appesi alle finestre. Sono sparse ovunque.
Questo è il mese delle streghe, scopro.
“Sai qual è la tortura più atroce che facevano alle streghe?” chiede Ruggero in macchina.
Ovviamente nessuno lo vuole sapere, e tutti lo vogliamo sapere.
“La tortura del topo”.
Diciamo che il topo era usato come un sex toy.
Poi vado a googlare la faccenda perché mi sembra veramente la versione porno di una tortura. Ma effettivamente è così, il topo veniva introdotto e cucito dentro al buco.
Per fortuna ho fatto anche scoperte meno angoscianti.
Ad esempio: passando per un paesetto di nome Crodo, dove c’era un furgoncino del Crodino ho pensato: “Ma che coincidenza, un furgoncino del Crodino in un posto chiamato Crodo!”
Come abitare la vignetta di un rebus da enigmistica.
Non era una coincidenza. Il Crodino si chiama così perché è stato inventato a
Crodo.
Seconda scoperta: non sapevo che i canyon venissero chiamati orridi.
E comunque non c’ero mai stata in un orrido. Ora che ci sono stata, temo non riuscirò mai più a tornare indietro dalla risemantizzazione personale della parola.
Dentro l’orrido c’era il percussionista Enrico Malatesta (con cui a pranzo abbiamo discusso a lungo sul perché tutti i musicisti che conosciamo hanno mollato il conservatorio) che eseguiva la sua versione solista della serie Occam di Éliane Radigue (ecco, probabilmente una come lei, al tempo, l’avrebbero presa per una strega).
Durata trenta minuti.
Anche senza stupefacenti, mi ha riscattato da tutti concerti non visti quest’anno.













Laboratorio autocostruzione
Cava Roncino di Oira Crevoladossola
Progetto riservato ai partecipanti in residenza
La fede ossessiva nel meteo svizzero non basta a negoziare con la pioggia.
Temporale serale in cava.
L’impressione è di stare dentro una comunità molto più avvezza all’imprevisto che al determinismo. C’è sempre un qualcosa da controllare che è appena andato fuori controllo. Quindi mi sta bene.
Lo spettacolo di danza viene rimandato alla mattina dopo, il talk spostato al treno dei bimbi (si chiama proprio così, è un villaggio fatto di vecchi vagoni ferroviari).
Siamo seduti intorno al tavolo.
Tentativo di conoscersi: “Da che animale ti senti rappresentato?”
Su una quarantina di persone ci sono quattro tartarughe.
Dunque, una persona su dieci si sente una tartaruga.
Lentezza, guscio, protezione.
Subito dopo Elisa Cristiana Cattaneo parla di piante pioniere. Ci penseranno loro a ricreare una frontiera. Sedute intorno al fuoco scruteranno i loro orizzonti.
Io non rientravo nella congrega di tartarughe, ma solo perché ce ne erano già troppe.
La verità è che siamo felici di delegare la responsabilità del futuro allo spirito avveniristico di piante eroiche.
Ci lisciamo sornioni il carapace.











Laboratorio autocostruzione
Cava Roncino di Oira Crevoladossola
Progetto riservato ai partecipanti in residenza











Escursione sull’Alpe Devero.
Come sempre è il meteo a dettare la nostra agenda. Tiriamo fuori le giacche contro la pioggia, apprensione generale sul proprio outfit. Sento salmodiare nomi di marche, l’impermeabilità è una faccenda esistenziale.
Alessandro Gogna scruta il nero che si addensa e si avvicina. Cita un libro di Lionel Terray, I conquistatori dell’inutile. L’alpinismo è qualcosa di inutile, ci dice. Però è felice che esista.
Bisogna saper vivere le proprie contraddizioni. Ma a volte va bene anche il contrario. Per dire: è stato il primo a cui hanno proposto di saltare la famosa staccionata dell’olio Cuore. Si è rifiutato.
Il rifugio tiene fede al suo nome e ci rintaniamo lì. La conversazione va dall’esistenza di Dio, alla distanza cognitiva da una scatoletta di Simmenthal, ai cavilli della burocrazia alpina. Ma la questione alla base è: perché si va in montagna? Cosa si cerca? Bellezza, distrazione, escapismo?
“Se c’è una parola che odio è mozzafiato” dice Gogna.
Quando la pioggia si placa, parte l’escursione.
Ho la paranoia che mi si mozzi il fiato.
Invece di elfi e fate, nel bosco aleggiano discorsi sulla mascolinità tossica.
Sulla via del ritorno sento per la prima volta una parola bellissima: “tritonificio”. Ma non vi dico cosa vuol dire.












Laboratorio autocostruzione
Cava Roncino di Oira Crevoladossola
Progetto riservato ai partecipanti in residenza
Associazione Canova: tecniche di costruzione in pietra
Villaggio di Ghesc Montecrestese (Associazione Canova)
La mattina è dedicata a intervistare Nicolas Jaar. L’idea era di riportarlo negli Orridi di Uriezzo che avevano fatto da inquietante e magnifico scenario al concerto di Malatesta. Ma il turismo è in grado di beffare pure la discesa negli inferi della Terra; scopriamo che di sabato mattina gli Orridi trasudano lo stesso premeditato entusiasmo di una gita al centro commerciale.
Mi chiedo sempre perché ci sia questo iperrealismo nelle comitive di turisti, ad esempio: perché così tanti elementi fucsia? Borse, berretti, scritte.
Così torniamo mestamente al treno dei bimbi e ci accontentiamo di uno sfondo bucolico standard.
“Ma secondo voi esistono veramente le mucche?” chiede Pietro mentre sistema la telecamera per l’intervista. In effetti è uno dei misteri insoluti del treno dei bimbi. Nei campi circostanti si sente un costante scampanellio di fondo, dalle prime luci dell’alba a notte fonda, una sorta di rasserenante rumore bianco, ma nessuno ha mai incontrato una singola mucca.
Jaar – che tutti chiamano Nico – ci regala delle bellissime risposte su come il mettersi in crisi dia un senso profondo al proprio lavoro.
La sera il suo concerto ha qualcosa di altrettanto profondo, messianico: dopo una settimana di vita in semi-comunità è come ritrovarsi intimamente connessi dentro il crescendo finale. Una forma di rito di cui avevamo bisogno.
A chiudere il festival c’è il dj set di Willikens&Ivkovic. Ognuno ha la sua leggenda privata sull’ora a cui è rincasato. Ma la mattina dopo, oltre lo scampanellio delle mucche invisibili, c’è una vera e propria messa a svegliarci. Il prete l’annuncia al megafono a partire dalle nove di mattina e ribadisce il concetto ogni cinque minuti. Aspettiamo nei letti che cominci la messa e lui si plachi. Invece pure la messa è al megafono.
Usciamo dai nostri vagoni e il mondo è cambiato. Grigliata di carne, bancarelle, famiglie, ragazzini, una festa di paese al treno dei bimbi. Ci aggiriamo nel nostro spaesamento assonnato, molle, spodestati dal nostro regno. Fantasmi. Anche il caffè sembra una conquista. Ma sono quasi felice di quel rovesciamento inaspettato.
Sarebbe stato più triste partire da lì lasciando vivide le forme dei nostri corpi.








La mattina è dedicata a intervistare Nicolas Jaar. L’idea era di riportarlo negli Orridi di Uriezzo che avevano fatto da inquietante e magnifico scenario al concerto di Malatesta. Ma il turismo è in grado di beffare pure la discesa negli inferi della Terra; scopriamo che di sabato mattina gli Orridi trasudano lo stesso premeditato entusiasmo di una gita al centro commerciale.
Mi chiedo sempre perché ci sia questo iperrealismo nelle comitive di turisti, ad esempio: perché così tanti elementi fucsia? Borse, berretti, scritte.
Così torniamo mestamente al treno dei bimbi e ci accontentiamo di uno sfondo bucolico standard.
“Ma secondo voi esistono veramente le mucche?” chiede Pietro mentre sistema la telecamera per l’intervista. In effetti è uno dei misteri insoluti del treno dei bimbi. Nei campi circostanti si sente un costante scampanellio di fondo, dalle prime luci dell’alba a notte fonda, una sorta di rasserenante rumore bianco, ma nessuno ha mai incontrato una singola mucca.
Jaar – che tutti chiamano Nico – ci regala delle bellissime risposte su come il mettersi in crisi dia un senso profondo al proprio lavoro.
La sera il suo concerto ha qualcosa di altrettanto profondo, messianico: dopo una settimana di vita in semi-comunità è come ritrovarsi intimamente connessi dentro il crescendo finale. Una forma di rito di cui avevamo bisogno.
A chiudere il festival c’è il dj set di Willikens&Ivkovic. Ognuno ha la sua leggenda privata sull’ora a cui è rincasato. Ma la mattina dopo, oltre lo scampanellio delle mucche invisibili, c’è una vera e propria messa a svegliarci. Il prete l’annuncia al megafono a partire dalle nove di mattina e ribadisce il concetto ogni cinque minuti. Aspettiamo nei letti che cominci la messa e lui si plachi. Invece pure la messa è al megafono.
Usciamo dai nostri vagoni e il mondo è cambiato. Grigliata di carne, bancarelle, famiglie, ragazzini, una festa di paese al treno dei bimbi. Ci aggiriamo nel nostro spaesamento assonnato, molle, spodestati dal nostro regno. Fantasmi. Anche il caffè sembra una conquista. Ma sono quasi felice di quel rovesciamento inaspettato.
Sarebbe stato più triste partire da lì lasciando vivide le forme dei nostri corpi.



Tra ciò che c’era e il futuro, ciò che sarà, si è inserito con prepotenza un inaspettato presente, un tempo complicato e difficile vissuto in un’alternanza di incredulità, smarrimento, paura e una soffocante calma apparente.
L’edizione 2020 di Tones on The Stones e di Nextones era stata immaginata in maniera articolata, ricca di spunti e con un sincero desiderio di condividere con il pubblico quelle emozioni collettive che, secondo noi, solo lo spettacolo dal vivo può regalare. Poi è arrivata la pandemia a bloccare ogni slancio e a proiettarci in una dimensione di continui ripensamenti su una possibile edizione 2020.
Ma possiamo proprio ora rinunciare a visioni utopiche?
Oramai c’è inevitabilmente un prima e un dopo il virus e questo spartiacque ce lo porteremo addosso come un tatuaggio che ci ricorda la fragilità di ciò che siamo, del nostro rapporto con la natura, del sistema di vita occidentale in apparenza così inscalfibile.
Siamo partiti dall’evidenza di questo “segno” per immaginare un’edizione 2020 del festival che prende il nome di Before and After e la forma di un percorso di ricerca: un’opera-studio.
Non possiamo sapere come usciremo dalla pandemia, ma è forse è momento di osare col pensiero, di amplificare la voce di artisti e creativi, di raccogliere narrazioni e visioni utili alla costruzione di una realtà più grande e sostenibile.
Before and After prenderà vita grazie a una residenza-laboratorio all’interno della Cava dismessa di Oira, una piccola frazione della Valle Ossola, una micro-comunità temporanea costituita da artisti, creativi, studiosi e tecnici, impegnata nella riflessione sulla parola “sociale” in un periodo in cui si è spesso fatto uso in maniera improvvida dell’espressione “distanziamento sociale”.
Parallelamente al percorso riflessivo e performativo, prenderà vita un cantiere di auto costruzione per iniziare a convertire lo spazio industriale della cava dismessa in un Teatro permanente nella Natura, una nuova casa per Tones on the Stones destinata a produzioni site-specific e a progetti inclusivi con i cittadini
Before and After si sviluppa attorno ai partecipanti ad un workshop-opera collettiva per poi aprirsi e coinvolgere, la comunità e le realtà culturali del territorio. Circa 30 giovani sono chiamati a riflettere ed elaborare azioni in gruppi di lavoro distinti per ambiti: comunicazione, produzione di eventi, architettura e autocostruzione.
Tutti, partecipanti e abitanti del territorio, hanno la possibilità di nutrirsi degli stimoli che sono loro messi a disposizione e partecipare attivamente alla realizzazione di un nuovo spazio dedicato alla cultura all’interno della Cava dismessa di Oira, un Teatro per il Futuro.
Attraverso un Diario di bordo sarà possibile presentare le attività e le performance ospitate nella cava. Before and After diventerà anche un cortometraggio autoriale destinato ai canali web e tv.
In questo processo creativo anche i cittadini hanno un ruolo rilevante: non saranno dei semplici fruitori di contenuti, ma saranno coinvolti in un percorso che li pone al centro dei processi anche in quello dell’Opera che si intende consegnare a fine residenza.
I partecipanti alla residenza daranno vita anche a un cantiere di auto costruzione per iniziare convertire la cava in Teatro. Avranno come sfondo numerose domande. Qual è il senso dell’abitare? E’ possibile costruire una nuova relazione tra noi e l’ambiente naturale? Qual è la strada per un diverso concetto di benessere personale e collettivo? Ad aiutare a trovare le risposte possibili ci saranno alcuni ospiti d’eccellenza.
Puoi seguire tutte le attività previste in Before and After nel nostro Diario di bordo, ogni giorno troverai testi, foto, video, interviste e dirette che racconteranno l’evoluzione del progetto.
Il Diario di bordo multimediale è realizzato da Studio Temp, dalla scrittrice Veronica Raimo e dal regista e documentarista Achille Mauri.
BEFORE AND AFTER
Da un’idea di Nicola Giuliani
Direzione Artistica: Maddalena Calderoni e Ruggero Pietromarchi
Segreteria Organizzativa: Chantal Ferrari
Produzione: Clementina Grandi, Niccolò Tramontana, Teresa Zabot
Allestimenti: Letizia Paternieri, Nicolò Brunetto
Bar Manager: Filippo Bertolina
Social Media Manager: Elena Maffioli
Grafico e fotografo: Matteo Grossini
Ufficio stampa: Alessandro Gambino, GDG Press – Filippo Ceretti e Michela Bianchi
PR internazionale: Ludovica Fecarotta
Architetto: Daniele Zerbi – Fuzz Atelier
Progetto grafico e sito web: Studio Temp
Diario di bordo, testi: Veronica Raimo
Diario di bordo, immagini e video: Achille Mauri
Foto di: Tap, Achille Mauri, Matteo Grossini, Susy Mezzanotte, Piercarlo Quecchia, Daniele Zerbi.
Link utili:
Fondazione Tones on the Stones
Sostenibilità
Threes
Info
Nata a Roma nel 1978. Ha pubblicato il suo romanzo di esordio Il dolore secondo Matteo per minimum fax nel 2007, e il suo secondo romanzo Tutte le feste di domani per Rizzoli nel 2013. Nel 2017 è uscita in Germania è uscita una sua raccolta di racconti (Eines Tages alles dir, Launenweber). Le sue poesie sono state raccolte all’interno dell’antologia Fuori dal cielo edita da Empirìa. Nel 2008 è stata selezionata per l’International Writing Program di Iowa City. Nel 2012 ha scritto la sceneggiatura del film Bella addormentata di Marco Bellocchio. Nel 2017 ha scritto la pièce Domani i giornali non usciranno, portato in scena dalla compagnia Barone Chieli Ferrari. Ha pubblicato racconti su diverse riviste tra cui: Nuovi Argomenti, Granta Italia. Un suo racconto è stato pubblicato in Svezia, e uno negli Stati Uniti. Traduce dall’inglese all’italiano per diverse case editrici. Ha scritto e scrive per diversi giornali e riviste, tra cui D, Xl, il manifesto, Corriere della Sera, Amica e collabora regolarmente con Rolling Stone.
I libri: Miden, Mondadori, 2018; Eines Tages alles dir, Launenweber, 2017; Tutte le feste di domani, Rizzoli, 2013; Il dolore secondo Matteo, minimum fax, 2007.
Regista, documentarista e fotografo, Achille Mauri crea documenti visivi provocanti che esplorano la libertà e l’espressione della condizione umana in diversi ambienti. Il suo approccio artistico alla composizione e l’uso della luce ambientale naturale si traduce in una narrazione stilistica emotiva che lascia un’impressione duratura allo spettatore. I suoi lavori hanno caratterizzato alcuni dei più grandi nomi dello sport non convenzionale, tra cui Alex Honnold, Kilian Bron, Frederik Van Lierde, Giorgio Rocca, Nicholas Wolken, Mark Cavendish, Ruben Spelta e altre menti come Antonino Cannavacciuolo, J-One, Lucas Beaufort, Alessandro Gogna ottenendo consensi sulle principali testate giornalistiche di settore e Film festival. L’estro delle sue immagini deriva da un binario approfondimento tra il mondo cittadino e quello naturale, intrinsecamente legati.
Apprezzare l’immaginazione, l’assunzione di rischi e la sensibilità del dover raccontare qualcosa di utile. Consapevole dell’enorme spazio per crescere in questo campo legato alle nuove tecnologie senza dimenticarsi delle tradizioni del passato. Achille è socio/fondatore di Summa srl e TAP studios due società che realizzano immagini visive autentiche e durature nel tempo.